Fermata #121 - Mining green per gli Stati
Un paper analizza come i Paesi potrebbero lanciarsi nell'acquisto e nel mining di bitcoin senza essere additati come "inquinanti" dalla stampa. La proposta di Troy Cross e Andrew Bailey
L’incentivo economico che offre Bitcoin fa gola. Non solo ad appassionati ed esperti ma a chiunque sia interessato a migliorare il proprio status. Governi compresi.
El Salvador ha pubblicamente annunciato l’adozione di Bitcoin nel 2021; l’Argentina nel 2022 ha investito in bitcoin come parte di una strategia per diversificare le riserve auree; la Repubblica Centrafricana ha prima abbracciato e poi abbandonato, sotto le pressioni francesi, la legge che avrebbe reso la criptovaluta a corso legale; il fondo pubblico che gestisce le pensioni norvegesi, Norges Bank Investment Management, ha investito in bitcoin lo scorso anno; la stessa cosa ha fatto AP7, il fondo pensione svedese. Quest’ultimo, in particolare, ha dichiarato di averlo fatto come parte di una strategia di investimento sostenibile.
Una mossa tanto coerente quanto audace, quella svedese, data l’abbondanza di quotidiani e opinionisti impegnati a raccontare quanto il mining di Bitcoin sia dannoso per l’ambiente con l’uso astuto di fallacie logiche e dati parziali.
In un’epoca in cui il cambiamento climatico è al centro di ogni dibattito, investire in bitcoin non è ben visto dalla stampa e dall’opinione pubblica, storicamente molto distanti dalle innovazioni. Come godere, dunque, dell’incentivo economico evitando il linciaggio mediatico?
Una risposta la danno il professore Troy Cross e il ricercatore Andrew Bailey nel paper intitolato: Bitcoin carbon-neutral per gli Stati.
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Fare mining per pulire ambiente e reputazione
Il paper parte da un assunto: l’hodling incentiva il mining.
Da un lato è ovvio che le transazioni siano un beneficio per i miner in virtù delle commissioni a loro destinate. Molti Stati, però, ancora non colgono i benefici di Bitcoin come mezzo di scambio. Sono più attratti dal suo potenziale apprezzamento nel medio-lungo termine. In poche parole, sono più interessati a comprare e risparmiare nelle riserve nazionali.
Anche questa attività arricchisce i miner e ne incentiva lo sviluppo dell’industria. Questo perché, esistendo una quantità finita di bitcoin, l’hodling riduce la liquidità del mercato, impedisce al prezzo di scivolare sotto a una certa soglia quando il mercato è in fase ribassista e fa sì che cresca più velocemente quando è in fase rialzista. Essendo i miner remunerati in bitcoin, una soglia di prezzo più alta significa un maggior guadagno. Insomma, gli hodler contribuiscono proporzionalmente al profitto dei miner.
Se uno Stato volesse investire in bitcoin, dunque, come potrebbe evitare di diventare il bersaglio preferito della stampa? Come potrebbe smentire l’accusa di contribuire a ulteriori emissioni di CO2 tramite l’incentivazione del mining?
Cross e Bailey esaminano diverse possibilità, arrivando a formulare una proposta risolutiva. Nel paper, scrivono:
Sosteniamo che il modo più efficace per gli Stati di adottare Bitcoin in modo responsabile sia impegnarsi in mining carbon neutral.
Sfruttare direttamente l’incentivo al mining
L’idea è semplice: lo Stato deve gestire una percentuale di hashrate globale - ottenuta con energia proveniente da fonti rinnovabili - identica alla percentuale costituita dai bitcoin detenuti rispetto al circolante totale.
Il calcolo è facile. Come esempio viene preso quello di El Salvador.
Il Paese centroamericano ha 1.400 bitcoin. Il circolante complessivo è di 19 milioni perché mancano circa 2 milioni di bitcoin che verranno emessi da qui al 2140. Includendo nel calcolo i 3 milioni di bitcoin che sono considerati persi per sempre, il circolante attuale si aggira intorno ai 16 milioni.
I 1.400 bitcoin di El Salvador, quindi, costituiscono lo 0,00875% del totale. Per poter rispondere direttamente all’incentivo offerto ai miner dalla detenzione di 1.400 bitcoin, El Salvador dovrebbe effettuare mining green con un hashrate che costituisca lo 0,00875% della potenza di calcolo globale.
Dato che l’hashrate mondiale si aggira attualmente intorno ai 390 EH/s, il Paese guidato da Nayib Bukele dovrebbe impegnarsi nel mining pubblico con stabilimenti green che producano circa 34 PH/s.
Considerando che un Antminer S19 Pro genera circa 100 TH/s, servirebbero 340 Asic per arrivare a 34 PH/s. Ognuna di queste macchine consuma sui 3kW, per cui il fabbisogno energetico complessivo sarebbe approssimativamente di 1 MW.
Difficile calcolare con precisione quanto potrebbero costare gli impianti, le variabili in gioco sono troppe e partono soprattutto dalle fonti energetiche utilizzate. Gli autori del paper stimano il costo dell’operazione ipotizzando che l’attività di mining operi almeno in pareggio. Trovano il rapporto tra la capitalizzazione di mercato di bitcoin e i ricavi del mining in un determinato periodo: le variabili sono il prezzo e il mercato delle commissioni, perché l’emissione di bitcoin è nota. Ad agosto 2023 il ricavo annualizzato del mining globale si attesta sugli $8 miliardi, di cui El Salvador incentiva lo 0,00875%.
Secondo questo calcolo, il Paese centroamericano dovrebbe investire circa $700.000 nel mining green di Bitcoin. Possibilmente, suggeriscono gli autori, tramite lo sfruttamento di quelle fonti di energia geotermica di cui lo Stato è particolarmente ricco grazie alla sua conformazione vulcanica.
In conclusione, per esaurire l’incentivo al mining offerto dalla detenzione di bitcoin, El Salvador dovrebbe impiegare nell’attività il 2% del capitale investito direttamente in bitcoin. Le cifre, com’è ovvio, variano a seconda dell’andamento dei mercati.
I Paesi che decidono di acquistare bitcoin potrebbero in questo modo pulirsi l’immagine davanti all’opinione pubblica, sostenendo che l’incentivo implicato dal proprio investimento è sfruttato ed esaurito dallo Stato stesso in modo completamente carbon-neutral e con tutte le esternalità positive offerte dal mining di Bitcoin come, per esempio, una disponibilità maggiore di energia elettrica.