Fermata #68 - Viviamo in un'economia socialista?
Salvaguardia della proprietà privata nei limiti dell'intervento statale: è il modello economico contemporaneo che, nella critica di von Mises, rappresenta l'anticamera del socialismo
Libro: I fallimenti dello Stato interventista
Autore: Ludwig von Mises
Editore: Rubettino
Anno di pubblicazione: 2011. Prima edizione originale: Kritik des Interventionismus, 1929.
Da quando i bolscevichi hanno abbandonato il loro tentativo di realizzare in un sol colpo il loro ideale sociale in Russia, e hanno sostituito alla loro politica originaria la «nuova politica economica», la NEP, nel mondo è in atto praticamente un unico sistema di politica economica: l'interventismo.
Cos’è l’interventismo?
Proprietà privata e proprietà collettiva
L'interventismo intende salvaguardare la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma nello stesso tempo regolare l'attività dei loro proprietari con norme e soprattutto con divieti autoritativi. Quando questo controllo dell'attività dei proprietari dei mezzi di produzione, e degli imprenditori che ne dispongono con il consenso di quelli, si spinge fino al punto da far dipendere ogni decisione essenziale dalla direttiva governativa, sicché a guidare le decisioni su cosa e come produrre non è più la ricerca del profitto da parte dei proprietari terrieri, dei capitalisti e degli imprenditori ma la ragion di Stato - quando questo accade, siamo in pieno socialismo, anche se nominalmente la proprietà resta in vigore. I una società così strutturata formalmente esiste la proprietà privata, ma di fatto esiste soltanto la proprietà collettiva. E la proprietà collettiva dei mezzi di produzione non è altro che socialismo e comunismo.
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Tuttavia la caratteristica dell'interventismo è appunto quella di non volersi spingere fino a questi estremi. Esso non intende abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma soltanto limitarla. Esso da una parte dichiara che la proprietà privata illimitata dei mezzi di produzione è antisociale, ma dall'altra ritiene che la proprietà collettiva, ossia il socialismo, sia irrealizzabile in linea di principio o almeno in via provvisoria. Vuole perciò dar vita a una terza cosa: un sistema sociale che sia una via intermedia tra proprietà privata e proprietà sociale dei mezzi di produzione, in modo da evitare per un verso gli eccessi e gli inconvenienti del capitalismo, e garantire per l'altro verso quei vantaggi della libera iniziativa e della flessibilità che il socialismo non è in grado di assicurare.
Il problema dell'interventismo non dev'essere confuso con quello del socialismo. Qui non si tratta della possibilità teorica e pratica di realizzare una qualsiasi forma di società socialista. La questione della possibilità o meno di costruire la società umana sulla base della proprietà collettiva dei mezzi di produzione richiede una risposta precisa, che per il momento non deve interessarci. Il problema che abbiamo davanti è invece il seguente: quali effetti hanno gli interventi autoritativi, governativi o di altra natura, in un ordinamento sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione? Possono questi interventi ottenere il risultato che si prefiggono?
Gli interventi politici sui prezzi
La politica dei prezzi mira a imporre prezzi dei beni e servizi diversi da quelli che si formerebbero spontaneamente sul libero mercato.
Dal prezzo alla produzione
Sulla base dei prezzi che si formano o che si formerebbero spontaneamente su un libero mercato non ostacolato dalle interferenze dell'autorità governativa, i costi di produzione sarebbero coperti dai ricavi. Se il governo impone un prezzo più basso, i ricavi restano inferiori ai costi. Di conseguenza i commercianti e i produttori, a meno che non si tratti di merci deperibili che si svalutano rapidamente, si asterranno dal vendere le merci in questione, in attesa di tempi migliori, quando, si spera, le disposizioni governative saranno abrogate. Se il governo non vuole che le proprie disposizioni provochino la scomparsa dalla circolazione di quelle determinate merci, non può limitarsi a fissarne il prezzo; deve anche ordinare contemporaneamente che tutte le scorte esistenti siano vendute al prezzo prescritto.
Ma neanche questo basta. Al prezzo di mercato ideale ci sarebbe equilibrio tra domanda e offerta. Ora invece che le disposizioni del governo hanno fissato d'autorità un prezzo più basso, la domanda è salita mentre l'offerta è rimasta invariata.
Dalla produzione al razionamento
Le scorte non sono perciò più sufficienti a soddisfare per intero tutti coloro che sono disposti a pagare il prezzo imposto. Una parte della domanda rimane insoddisfatta. Il meccanismo del mercato, che in condizioni normali porta all'equilibrio tra domanda e offerta attraverso la modifica del livello dei prezzi, non funziona più. A questo punto gli acquirenti che sarebbero disposti a pagare il prezzo imposto dal governo sono costretti ad abbandonare il mercato con un nulla di fatto. Coloro che occupano una posizione strategica sul mercato o sanno sfruttare le loro relazioni personali con i venditori si accaparrano l'intera scorta, e gli altri restano a bocca asciutta. Per evitare queste conseguenze inintenzionali del suo intervento, il governo deve aggiungere al prezzo imposto e alla vendita forzata anche il razionamento. Una nuova disposizione governativa stabilirà perciò anche il quantitativo di merce che potrà essere ceduto, al prezzo imposto, a ciascun acquirente.
Dal razionamento al controllo dei salari
Se poi al momento dell'intervento governativo le scorte esistenti sono già esaurite, il problema si aggrava ulteriormente. Poiché infatti a quel prezzo di vendita imposto d'autorità la produzione non è più redditizia, essa viene ridotta o addirittura sospesa. Se invece l'autorità vuole che la produzione continui, deve obbligare gli imprenditori a produrre, e allora deve fissare non solo i prezzi delle materie prime e dei semilavorati, ma anche i salari. E queste disposizioni, d'altra parte, non possono limitarsi a uno o a pochi settori di produzione che si intendono regolare, in ragione dell'importanza strategica che si attribuisce ai loro prodotti. Devono estendersi a tutti i settori produttivi, devono cioè regolare i prezzi di tutti beni e di ogni tipo di salario, e insomma i comportamenti di tutti - imprenditori, capitalisti proprietari terrieri e operai. Qualora infatti rimanessero fuori da tale regolamentazione alcuni settori di produzione, il capitale e il lavoro vi affluirebbero immediatamente, sicché verrebbe mancato l'obiettivo che il governo si riprometteva con Il suo primo intervento. Il governo vuole invece che il maggior investimento di capitale e lavoro si diriga proprio nel settore di produzione che esso ha provveduto a regolare per l'importanza particolare che annette ai suoi prodotti. Che sia disertato proprio quel settore, e che lo sia proprio per effetto del suo intervento, è contro tutte le sue intenzioni.
Capitalismo o comunismo, non c’è via di mezzo
Ora vediamo chiaramente che cosa è accaduto: l'intervento autoritativo nel meccanismo del sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione ha fallito lo scopo che il governo voleva ottenere con quel mezzo. Quell'intervento non solo non ha raggiunto lo scopo di chi lo ha promosso, ma si è rivelato addirittura controproducente rispetto allo stesso scopo, perché il male che per suo mezzo si voleva combattere è rimasto e si è persino aggravato ulteriormente. Prima che il prezzo fosse imposto per decreto, la merce - nell'opinione dell'autorità - era troppo cara; ora è addirittura scomparsa dal mercato. Ma questo esito non era nelle intenzioni dell'autorità, che anzi voleva renderla più accessibile al consumatore mediante la riduzione del prezzo. La sua intenzione era opposta: dal suo punto di vista, il male maggiore è senz'altro la penuria di quella merce, l'impossibilità di procurarsela. In questo senso si può dire che l'intervento del governo è stato illogico e contrario allo scopo che si prefiggeva e, più in generale, che qualsiasi programma di politica economica che intende operare con simili interventi è irrealizzabile e impossibile.
Se il governo non ha intenzione di rimettere in carreggiata le cose, astenendosi dall'intervenire e revocando il prezzo imposto, allora non gli resta che far seguire al suo primo passo tutti gli altri.
Al decreto che vieta di praticare prezzi superiori a quelli imposti deve far seguire non solo un decreto che obblighi a mettere in vendita le scorte, e poi un altro ancora sul razionamento, ma anche un ulteriore decreto che fissi i prezzi dei beni di ordine superiore e i salari e, per completare l'opera, il decreto sull'obbligo di lavoro degli imprenditori e degli operai.
E, ripeto, queste prescrizioni non possono limitarsi a uno o a pochi settori di produzione, ma devono estendersi a tutti. Non c’è altra scelta: o rinunciare a intervenire nel libero gioco del mercato, oppure trasferire l'intera direzione della produzione e della distribuzione all'autorità governativa. O capitalismo o socialismo. Non esiste una via di mezzo.
Il salario minimo: creatore di disoccupazione
Facciamo ancora un esempio: il salario minimo garantito. Qui è indifferente che sia il governo direttamente a imporre la tariffa salariale, oppure che esso tolleri che i sindacati, con la minaccia o il ricorso effettivo alla coercizione fisica, impediscano all'imprenditore di assumere operai che vogliano lavorare per un salario più basso. Insieme ai salari, aumentano necessariamente anche i costi di produzione e quindi anche i prezzi. Se considerassimo come consumatori (acquirenti dei prodotti finali) soltanto i percettori di salario, qualsiasi aumento del salario reale diventerebbe impossibile.
Ciò che i lavoratori otterrebbero come percettori di salario, lo perderebbero inevitabilmente come consumatori. Sta di fatto però che non esistono soltanto consumatori che sono percettori di salario, ma anche consumatori che sono percettori di redditi di proprietà o d'impresa, e i loro redditi non aumentano certamente quando vengono aumentati i salari; con la conseguenza che, non potendo far fronte all'aumento dei prezzi, essi sono costretti a limitare i loro consumi. D'altra parte la riduzione delle vendite porta a licenziamenti. Senza la coercizione dei sindacati, la pressione esercitata dai disoccupati sul mercato del lavoro riporterebbe necessariamente il salario artificiosamente aumentato al suo saggio naturale di mercato. E tuttavia, dal momento che quella coercizione esiste, questa via d'uscita è sbarrata. La disoccupazione quindi - che nell'ordinamento sociale capitalistico è un fenomeno frizionale che compare e scompare - grazie all'interventismo diviene un'istituzione permanente.
Il governo, che naturalmente non desidera una situazione del genere, è costretto di nuovo a intervenire. Esso obbliga allora gli imprenditori o a riassumere i lavoratori licenziati e a pagarli al saggio salariale imposto, oppure a pagare imposte con il cui ricavato vengono finanziati i sussidi di disoccupazione.
Ovviamente questi oneri aggiuntivi vanificano o riducono fortemente il reddito dei proprietari e degli imprenditori, e non è da escludere che a essi si possa far fronte non attingendo ai redditi ma intaccando il capitale. Anche se volessimo fare affidamento sul fatto che il finanziamento di tali oneri si limiti a prosciugare soltanto i redditi di proprietà, lasciando intatto il capitale, alla distruzione di capitale si giunge ugualmente.
I capitalisti continuano infatti a vivere e consumare anche se non ottengono reddito; e allora distruggono capitale. È questo appunto - nel senso che si diceva prima - l'aspetto irrazionale e controproducente, rispetto al suo stesso scopo, della politica che punta a sottrarre reddito agli imprenditori, ai capitalisti e ai proprietari fondiari, pur lasciando loro la disponibilità dei mezzi di produzione. Giacché è evidente che, quando si arriva a distruggere capitale, diventa poi inevitabile una nuova riduzione dei salari.
Se non si accetta che sia il mercato a fissare il salario, bisogna abolire l'intero sistema della proprietà privata.
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