Fermata #107 - Nessuna cassaforte è sicura
Le difficoltà di Prime Trust, servizio di custodia di grandi exchange, insegnano ancora una volta che nulla può essere considerato sicuro. Non esistono alternative alla custodia personale
Investimenti in leva con i soldi dei clienti.
Sembrerebbe questo uno dei motivi che, secondo più fonti, starebbe portando sull’orlo della bancarotta uno dei più importanti servizi di custodia americani: Prime Trust.
L’azienda con sede a Las Vegas, lo scorso 21 giugno, si è vista recapitare un ordine di cease and desist1 dal Dipartimento per gli Affari e l’Industria del Nevada, al quale è velocemente succeduto la richiesta di nomina di un curatore fallimentare.
Come si è arrivati a questo punto? E perché è una storia importante per chi è interessato a Bitcoin?
Il custode degli exchange
Molti di voi avranno sentito più volte il detto not your keys, not your coins: in questo settore si usa spesso per far capire a chi si avvicina all’ambiente che detenere bitcoin sugli exchange equivale a non averli affatto. Quando un exchange fallisce, lo fa con i vostri soldi. Negli ultimi anni gli esempi sono stati innumerevoli, l’ultimo in ordine di tempo è quello tutto italiano di The Rock Trading. Insomma, Bitcoin nasce per eliminare il rischio di controparte nel mondo del denaro: delegandone la custodia si snatura completamente il suo stesso senso di esistere. Solo gestendo autonomamente le chiavi private si ha il vero controllo dei propri bitcoin.
Il messaggio per l’utente finale dovrebbe essere ancora più chiaro quando si realizza che persino alcuni exchange, di cui i clienti si fidano ciecamente, non si fidano di loro stessi. Si affidano a delle aziende il cui core business è quello di custodire le criptovalute dei clienti. Prime Trust è una di queste e, fino a poche settimane fa, era considerata una delle più affidabili negli Stati Uniti.
Tra i clienti di Prime Trust spiccavano nomi altisonanti: Binance US, Kraken, Swan, Strike, Okcoin e gli ormai defunti FTX e Celsius.
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L’intervento del regolatore
Non sorprende che molti clienti degli exchange citati siano andati nel panico su Twitter dopo che il regolatore del Nevada ha bloccato le attività di Prime Trust con motivazioni eloquenti. Nel documento si legge:
Il 21 giugno 2023, Prime Trust non è stata in grado di onorare i prelievi dei clienti a causa di un ammanco di fondi causato da una passività significativa nel bilancio. […] Prime Trust ha materialmente e intenzionalmente violato i suoi doveri fiduciari nei confronti dei clienti, non riuscendo a salvaguardare i beni sotto la sua custodia.
Dalle carte emergono numeri preoccupanti: Prime Trust deve ai propri clienti $85.670.000 in valuta fiat, ma ha la disponibilità di soli $2,904,000. Com’è possibile che un’azienda di sola custodia di denaro - quindi non coinvolta in pratiche come la riserva frazionaria - si ritrovi improvvisamente con oltre $80 milioni gestiti in meno rispetto a quelli versati dai clienti? In particolare, a un solo anno di distanza dal round di investimenti in cui aveva raccolto ben $100 milioni.
La gestione delle chiavi e il tentativo di recupero
La risposta potrebbe arrivare da Mike Belshe, amministratore delegato di un’altra nota azienda di custodia: BitGo. Quest’ultima aveva in programma di acquisire proprio Prime Trust. Poche settimane fa, durante un Twitter Space, a Belshe è stato chiesto se avesse contezza di alcuni rumors, secondo i quali una nota azienda di custodia avrebbe perso le chiavi private di uno dei wallet gestiti. L’ad di BitGo ha risposto così:
E’ qualche mese che sento questo rumor e non credo che si tratti di Prime Trust. Ma se si trattasse di loro verrebbe sicuramente fuori nella due diligence che faremo.
Ebbene, il 22 giugno, il giorno successivo all’ordine di cease and desist, BitGo ha annunciato su Twitter l’annullamento dell’acquisizione di Prime Trust. Nulla è ancora confermato da fonti ufficiali, ma il sospetto che la due diligence non sia andata secondo le aspettative è forte.
Le stesse fonti che parlano della perdita delle chiavi, poi, riferiscono di un’altra condotta. Anziché sospendere le attività e rendere pubblico l’accaduto, Prime Trust avrebbe continuato ad acquisire clienti, investendo i loro soldi a leva con l’obiettivo di recuperare i fondi persi.
Chi è coinvolto?
Al momento nessuno dei grandi exchange sopracitati, clienti di Prime Trust, sembrerebbe colpito dalla cessazione delle attività. Cory Klippsten, amministratore delegato di Swan, uno dei più stimati exchange Bitcoin-only americani, ha scritto su Twitter che l’azienda ha spostato tutti i fondi dei propri clienti nelle mani di BitGo e Fortress. Non è dunque interessata dalla vicenda Prime Trust.
Qualche domanda, tuttavia, occorre farsela anche parlando di Fortress. Lo scorso 14 giugno Banq, azienda sussidiaria di Prime Trust, ha dichiarato bancarotta: nei documenti consegnati alle autorità, la società denuncia che nel maggio 2021 l’ex amministratore delegato Scott Purcell avrebbe rubato $17,5 milioni di fondi aziendali per poter fondare proprio Fortress, di cui risulta oggi l’ad.
Come conseguenza della chiusura di Prime Trust sono stati costretti a sospendere i prelievi solamente alcuni exchange minori: Stably.io, Coinmetro, True USD.
Due lezioni
Dopo i default di vari exchange, lo scorso anno giornalisti ed esperti del settore crypto hanno lamentato a gran voce una mancanza di regolamentazione. Come se dei paletti relativi a presunte regole di condotta e trasparenza servissero effettivamente a mitigare la gestione aziendale. Seppur di dimensioni molto diverse, i default di FTX e The Rock Trading e la situazione di Prime Trust dimostrano che la regolamentazione non ha alcuna efficacia. Le banche, nel 2008, non erano forse regolate? La bandiera della protezione del consumatore non è altro che un cavallo di Troia per poter estrarre più dati personali possibili e negare sempre più privacy all’utente finale. Tutte e tre le aziende citate erano altamente regolate e controllate dalle autorità competenti, ma questo non ha evitato gestioni sciagurate dei fondi dei clienti.
La vicenda Prime Trust insegna poi un’altra cosa. Non solo è il caso di non fidarsi degli exchange centralizzati, ma è il caso di non fidarsi nemmeno di chi per professione fornisce servizi di sola custodia. Naturalmente, la condotta dell’azienda americana non implica che tutti i suoi competitor si comportino ugualmente.
Ma il concetto è chiaro: non esistono porti sicuri. Non lo sono le banche per i vostri conti correnti, non lo sono gli exchange e le aziende di custodia per i vostri bitcoin. La tecnologia scoperta da Satoshi Nakamoto consente oggi di gestire i risparmi solamente con 12 o 24 parole, le chiavi private. Ognuno di noi è responsabile delle proprie azioni: è arrivato il momento di prendersi la responsabilità anche del proprio denaro.
Smettiamola di fidarci di qualcuno perché regolamentato. Lo suggerisce persino Netflix nel titolo del documentario sul caso dell’exchange Quadriga: Trust No One.
Ordine che impone la cessazione delle attività.