Fermata #15 - Il problema del Kazakistan non è Bitcoin
Il governo ordina di "sparare per uccidere" i manifestanti. Alcune testate legano Bitcoin al problema energetico del Paese prestando il fianco alla narrativa del regime kazako
«Abbiamo a che fare con banditi armati e ben addestrati, sia locali che stranieri. Più precisamente, con terroristi: dobbiamo distruggerli, e questo sarà fatto molto presto».
Sono le parole pronunciate venerdì 7 gennaio dal presidente del Kazakistan, Kassym-Jomart Tokayev, che in diretta nazionale ha attaccato i manifestanti locali.
Il Kazakistan non è un Paese solito alle rivolte proprio perché governato in maniera autoritaria, con poco se non nessuno spazio per il dissenso. Le proteste degli ultimi giorni hanno avuto origine dal malcontento popolare per l’aumento dei prezzi del carburante per poi sfociare in ribellioni vere e proprie contro il regime. Durante gli scontri dell’ultima settimana, in cui l’ordine delle forze armate era quello di “sparare per uccidere” si sono registrati 44 morti, fra cui 18 agenti, più di 1000 feriti e oltre 3000 manifestanti sono stati arrestati. Sono diventate virali le immagini del palazzo del sindaco di Almaty, capitale economica del Paese, dato alle fiamme dai protestanti.
Mining ed energia elettrica
La migrazione dalla Cina e il blackout
Cos’ha a che vedere tutto questo con Bitcoin?
Dopo il mining ban cinese dello scorso anno molte mining farm hanno lasciato Pechino per trasferirsi all’estero, in particolare negli Usa e in Kazakistan1 per i vantaggiosi costi energetici. Il risultato è che il Paese asiatico è diventato il secondo nel mondo, proprio dopo gli Stati Uniti, a ospitare la maggior percentuale di Hash Rate (ossia di potenza computazionale, come spiegato nella fermata #3): il 18,1%2.
A partire da mercoledì 5 gennaio, come riportato da NetBlocks, il governo kazako ha provocato vari blackout togliendo la connessione Internet al Paese al fine di placare la diffusione di contenuti che potessero alimentare ulteriormente le proteste.
La mossa ha mandato offline l’intera nazione, inclusi i miner che vi operano. Le più importanti mining pool3 globali hanno perso in media il 10% del loro Hash Rate secondo i dati di pool Btc.com. Questo ha portato diverse testate ad avventarsi sulla notizia per dichiarare ancora una volta la morte, o quasi, di Bitcoin.
La Stampa: Il blocco di Internet in Kazakhstan mette in ginocchio la rete Bitcoin.
Il Sole 24 Ore: Kazakistan, le proteste spaventano i miners di criptovalute.
Per “mettere in ginocchio la rete Bitcoin” bisognerebbe eliminare sia la connessione Internet che quella satellitare in tutto il mondo. Verificare la notizia è comunque molto semplice: basta controllare l’andamento dell’Hash Rate globale negli ultimi giorni. Il calo della potenza computazionale globale nei giorni di riferimento (dal 5 gennaio) è del tutto irrisorio: l’attuale valore è molto simile a quello del 12 dicembre 2021, quando nessun blackout stava affliggendo il Kazakistan.
Quindi no, il blackout kazako non ha fatto crollare la rete Bitcoin: il suo effetto è stato del tutto trascurabile.
Bitcoin responsabile dell’aumento dei prezzi? Falsità di regime ed eco dei giornali
In Kazakistan la migrazione dei miner dalla Cina ha indubbiamente fatto notizia lo scorso anno. Quando l’aumento dei prezzi del carburante è diventato critico, al regime non sembrava vero di poter utilizzare un così semplice capro espiatorio per poter celare le proprie inefficienze: la colpa è di Bitcoin!
Già lo scorso novembre, quindi, il governo kazako aveva fatto sapere che l’intera industria del mining nazionale - tra le mining farm registrate e una stima di quelle operanti di nascosto - arrivava a consumare circa l’8% della capacità energetica del Paese, 1,8 GWh.
Peccato che secondo World Data, nel 2018 - ultimi dati disponibili - il Kazakistan consumava 94.230 GWh (meno di quanto produceva, 101.000 GWh): se rapportato al dato di 1,8 GWh fornito dal governo si scopre che il mining in Kazakistan assorbe lo 0,0019% del fabbisogno totale: giusto un po’ meno dell’8%.
Probabilmente il calcolo era troppo complesso per quelle testate che negli ultimi giorni hanno prestato il fianco alla narrativa del regime kazako, additando Bitcoin come una delle cause che hanno portato agli scontri di piazza. “Il prezzo dell'energia è aumentato anche perché il Paese è diventato l'eldorado dei miner”, ha scritto l’Huffington Post; per Reuters “il boom delle criptovalute mette a dura prova la rete energetica a carbone del Kazakistan”.
Insomma, Bitcoin non è il problema principale del Paese asiatico, che da ex colonia dell’Urss ha ben altre criticità da fronteggiare: un’economia controllata dal regime che ha portato a fame e povertà e l’impossibilità di esprimere liberamente il proprio dissenso, per cominciare.
Al contrario, il fatto che Bitcoin si sia diffuso proprio laddove le libertà individuali sono costantemente minacciate da un governo autoritario non è un caso: la tecnologia introdotta da Satoshi Nakamoto non viene imposta, è libera e viene adottata da chi vi scorge una convenienza nell’utilizzarla. E dove il potere d’acquisto della valuta locale, il tenge kazako, si è più che dimezzato dal 2015 a oggi, Bitcoin rappresenta una risorsa molto efficace per difendere i propri risparmi.
Altri paesi pronti a incentivare i miner
Anche se attualmente non sembra un’ipotesi all’orizzonte, è opportuno chiedersi cosa accadrebbe se il Kazakistan decidesse di bandire il mining.
Probabilmente ciò che è già successo dopo il ban cinese: i miner locali si trasferirebbero in paesi più ospitali, che di certo non mancano. In Spagna, per esempio, la deputata María Muñoz del partito liberale Ciudadanos ha proposto che Madrid approfitti dell’ostilità kazaka per attrarre più miner possibili nella penisola iberica.
Proponiamo che la Spagna si posizioni come una destinazione sicura per gli investimenti in criptovalute per sviluppare un settore flessibile, efficiente e sicuro.
Bitcoin non ha certo bisogno dell’approvazione di istituzioni e regolatori per prosperare, ma al contempo gli incentivi che questa tecnologia offre difficilmente verranno ignorati. Di fronte a un governo ostile è facile immaginare che ci sarà sempre una nazione pronta a raccogliere i benefici della più importante criptovaluta: le commissioni basse e l’efficienza del mining che permette di monetizzare i surplus energetici, per citarne due.
Il 2022 riserverà sorprese.
Secondo il Financial Times sono quasi 88.000 le società cinesi che si sarebbero spostate in Kazakistan negli ultimi 12 mesi.
Mining pool: azienda che coordina miner sparsi in tutto il mondo, unendo la capacità computazionale di tutti i partecipanti per competere nella corsa globale alla scrittura dei blocchi della blockchain.