Fermata #17 - Bitcoin e cripto: tesi e antitesi
Anche se comunemente accostate, l'opera di Satoshi Nakamoto e le altcoin hanno ben poco in comune: tecnologie e casi d'uso sono completamente diversi, così come le priorità del Trilemma.
Ormai con il termine criptovalute1 si indica un settore talmente vasto e in così forte espansione che i suoi confini sono davvero complessi da tracciare. Tralasciando la vaghezza della definizione - anche un pagamento con carta di credito è criptato, l’euro è quindi una criptovaluta? - è fondamentale distinguere tra Bitcoin e il mare magnum di prodotti che si è formato dopo la sua nascita: le altcoin sono tutte le criptovalute al di fuori di Bitcoin e molte di queste - per alcuni, tra cui il sottoscritto, proprio tutte - sono opportunamente definite shitcoin. A voi la traduzione.
Priorità differenti
La singolarità
Per quanto il mondo Bitcoin e quello delle criptovalute siano quasi sempre accostati, talvolta utilizzando i termini come sinonimi, il protocollo introdotto da Satoshi Nakamoto sottende tecnologie, ideologie, casi d’uso e obiettivi unici e inimitabili e in gran parte dei casi antitetici a quelli delle altcoin.
In questo senso Bitcoin è una singolarità nella storia del trasferimento del valore che non può essere imitata e uno dei motivi principali sta nelle priorità che si pone la tecnologia di fronte al Trilemma.
Il Trilemma
Nella vita di tutti i giorni siamo costretti ad affrontare dei trade-off: situazioni in cui migliorando un aspetto di qualcosa si finisce inevitabilmente per peggiorarne un altro. In economia uno dei più noti trade-off è quello tra inflazione e crescita2.
Nel mondo delle reti distribuite e, più nello specifico, in quello delle criptovalute, il trade-off più noto coinvolge tre macro-variabili: decentralizzazione, sicurezza e scalabilità, per questo motivo è definito Trilemma.
In una rete che scambia informazioni non si può raggiungere il massimo livello in tutti e tre gli aspetti perché il miglioramento di uno implica direttamente il peggioramento di un altro. Adam Back, ceo e co-fondatore di Blockstream, vi ha fatto indirettamente riferimento parlando di Bitcoin in un tweet dell’anno scorso.
È davvero sorprendente, ma sembra molto difficile migliorare significativamente la struttura fondamentale di Bitcoin. La maggior parte degli aspetti migliorabili implica dei trade-off che peggiorano le altre proprietà.
Serve dunque stabilire delle priorità e decidere quali aspetti siano più e meno importanti: è qui la differenza chiave che traccia una profondissima linea di demarcazione tra Bitcoin e le altcoin.
La distribuzione della rete
Consapevole della storia che precede l’introduzione di Bitcoin - costellata da tentativi di sviluppo di una valuta nativa di Internet, falliti in gran parte per un’eccessiva centralizzazione - la comunità globale aspira al massimo della decentralizzazione e della sicurezza possibili, perdendo quindi performance nella scalabilità della blockchain (layer 1).
Nakamoto nel 2008 parlava persino di “distribuzione” della rete. Da allora la comunità Bitcoin è focalizzata nel migliorare con il massimo degli sforzi questa caratteristica perché rappresenta l’essenza stessa della tecnologia ed è ciò che la rende antifragile.
Bitcoin è la rete più distribuita attualmente esistente. Tutte le altcoin, anche se in misure diverse tra loro, sono più centralizzate e meno sicure. Stiamo parlando di un oceano di nuovi strumenti per scambiare valore dalla governance centralizzata o semi-centralizzata e per questo motivo affini a un paradigma non diverso da quello esistito finora: quello in cui il successo delle operazioni all’interno della rete è garantito e dipende da un singolo o da pochi attori. In parole più semplici, non è più la sola banca a processare le operazioni ma sono i pochi soggetti coinvolti nella gestione della rete.
Fiducia e vulnerabilità
Proprio per via della loro decentralizzazione fittizia - Jimmy Song le definirebbe Dino: Decentralized In Name Only - le altcoin mantengono il requisito della fiducia in uno o più organi. Per questo motivo non sono rivali del settore bancario ma ne rappresentano un’evoluzione: potranno innovare i sistemi di pagamento, di investimento, di trading, di risparmio ma non potranno certo democratizzare la finanza. Bitcoin, al contrario, è un vero e proprio sistema finanziario alternativo che implica una concreta eliminazione dell’intermediario: altcoin e finanza tradizionale rappresentano ciò che Bitcoin vuole cambiare.
Ethereum non fa eccezione
Il ragionamento vale anche per la piattaforma più popolare dopo Bitcoin, Ethereum. Se Satoshi Nakamoto è uno pseudonimo che cela la o le identità dietro alla nascita di Bitcoin e che ha fatto perdere le sue tracce nel 2010, il fondatore di Ethereum è noto e gode anche di una forte influenza nello sviluppo della tecnologia: Vitalik Buterin è membro del comitato esecutivo della Ethereum Foundation (il cui direttore esecutivo è Aya Miyaguchi, anche membro del World Economic Forum), organizzazione dal cui consenso passano di fatto tutte le implementazioni al codice di Ethereum.
Non è un caso che la politica monetaria di Bitcoin abbia conservato la sua immutabilità negli anni, mentre quella di Ethereum sia cambiata più e più volte. Le cose non miglioreranno: la creatura di Buterin passerà (forse quest’anno) a Ethereum 2.0, adottando la proof-of-stake come algoritmo di scrittura dei blocchi della sua blockchain.
Proof-of-Stake
Se nella proof-of-work, come accade in Bitcoin, viene premiato chi dimostra di aver compiuto una certa quantità di lavoro spendendo risorse, nella proof-of-stake viene invece remunerato chi dimostra di detenere una data quantità di capitale investito nell’asset. Nel caso di Ethereum 2.0 serviranno almeno 32 Ether per poter partecipare alla partita.
Le chances di scrivere il blocco, e guadagnare quindi la ricompensa, aumentano proporzionalmente al crescere della somma in stake, cioè investita e bloccata. Di fatto, più denaro si deposita, maggiore è la possibilità di riceverne e, di conseguenza, aumenta anche la disponibilità di denaro da depositare, che a sua volta si traduce in ancor più chances di scrivere il blocco successivo: un ciclo senza fine. Un sistema in cui nel medio-lungo termine i ricchi diventeranno sempre più ricchi e dove il numero di miner tenderà a ridursi sempre di più, creando a tutti gli effetti un oligopolio. Lo stesso Vitalik Buterin ha ammesso che “c'è un'alta probabilità che la produzione di blocchi finisca per essere centralizzata”3.
Insomma, dato che non sono solito dare consigli finanziari, mi affido alle parole di Nick Szabo:
Se hai intenzione di investire in qualcosa di centralizzato, dovresti investire in un sistema finanziario che ha alle spalle centinaia di anni di storia istituzionale, non in sistemi che fingono di essere decentralizzati o in nuove nozioni di governance del signore delle mosche.
Il mining arriva a Sanremo
Durante l’attuale edizione di Casa Sanremo sono stato intervistato da Criptovaluta.it sul tema del mining come stimolo alla transizione energetica. L’approssimazione dei grandi media al riguardo non si smentisce mai e la narrativa che vede Bitcoin come un pericolo per l’ambiente è molto diffusa. Le cose stanno diversamente: ne ho scritto nella fermata #16 di questa newsletter e ho avuto il piacere di parlarne a Casa Sanremo. Qui il video.
Nel white paper pubblicato nel 2008 da Satoshi Nakamoto non compaiono in alcun modo le parole “criptovaluta” e “blockchain”. Si tratta di termini coniati in seguito.
Quando la Bce immette liquidità nei mercati tramite il Quantitative Easing lo fa per stimolare la crescita economica e la dinamicità dei mercati ma la stessa azione comporta anche un aumento dei debiti pubblici e, di conseguenza, la possibile adozione di politiche conservative da parte dei governi, che rischiano di avere l’effetto contrario di quello desiderato.