Sì, quel Paul Krugman. Quello che nel 1998 disse che Internet avrebbe avuto un impatto sull’economia non superiore a quello del fax1.
Entro il 2005 o giù di lì, sarà chiaro che l'impatto di Internet sull'economia non è stato superiore a quello del fax.
Quello che da sempre si è detto molto scettico su Bitcoin, sostenendo che non potesse svolgere efficacemente il ruolo di moneta e di riserva di valore. Ora Paul Krugman sostiene che la Federal Reserve - la banca centrale statunitense - dovrebbe alzare il suo tradizionale obiettivo d’inflazione (2%, come quello della Bce) di un punto percentuale.
Lo fa su Twitter, commentando un editoriale del Wall Street Journal in cui il professore di politiche monetarie ad Harvard Jason Furman sostiene la necessità di rivedere al 3% l’obiettivo d’inflazione a lungo termine.
L’articolo pesa quelli che per il professore sono costi e benefici di un tasso d’inflazione più elevato. Il costo principale sarebbe costituito dalla difficoltà di pianificazione a lungo termine a causa della perdita di potere d’acquisto, il beneficio quello di tamponare le recessioni gravi e stimolare gli investimenti. Questo in ragione del fatto che un obiettivo di inflazione più alto garantirebbe alla Fed maggiore capacità di tagliare i tassi di interesse. Cioè, tradotto in linguaggio comprensibile: abbassare il costo del denaro, quindi aumentare la concessione di crediti, quindi emettere più liquidità in virtù della riserva frazionaria. In sintesi, stampare più soldi.
Il premio Nobel esprime il suo sostegno all’autore scrivendo che la logica del 2% è stata superata da un paio di decenni di esperienza. La ragione dietro questa affermazione, però, non viene specificata.